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L’emergenza sanitaria, era prevedibile, ha portato con sé anche un’emergenza economica che oggi più che mai merita di essere affrontata, per scongiurare pericolose tensioni che indebolirebbero ancora di più il tessuto produttivo italiano. Secondo il Decreto Legge del 30 giugno 2021, n. 99, cioè il c.d. Decreto Lavoro approvato dal Governo per introdurre nuove misure per lavoratori, imprese e fisco, è prevista una proroga del blocco licenziamenti solo per alcuni settori. Per altri, invece, i licenziamenti sono sbloccati dal 1° luglio: si tratta dell’industria manifatturiera e dell’ edilizia. Il blocco licenziamenti è prorogato fino al 31 ottobre 2021, invece, per i settori che sarebbero maggiormente colpiti dall’emergenza da Covid-19 e per cui non vi è stato ancora segnale di ripresa, ovvero abbigliamento, tessile e calzaturiero. Si tratta delle categorie che rientrano nella classificazione delle attività economiche Ateco2007, con i codici 13, 14 e 15. Solo per questi settori è possibile richiedere i trattamenti di cassa integrazione ordinaria (CIGO) e assegno ordinario (AO) per Covid, per un periodo massimo di 17 settimane, fino al 31 ottobre 2021.



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C’è da aspettarsi che i datori di lavoro delle Ateco 13, 14 e 15 lo facciano, visto che molte attività arrancano e l’attività risulta ridotta, se non sospesa. Il blocco dei licenziamenti, che, lo ricordiamo, era stato introdotto per la prima volta con il Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, ovvero il c.d. Decreto Cura Italia, a quanto pare non sarà ripristinato. Il blocco era previsto inizialmente solo per 60 giorni, quindi fino al 16 maggio 2020. Era destinato a tutti i datori di lavoro indipendentemente dal numero di dipendenti. Il blocco prevedeva il divieto di licenziare. Con la Legge 24 aprile 2020, n. 27 di conversione del Decreto Cura Italia è stata poi introdotta l’esclusione da tale divieto per i licenziamenti legati al personale che subentrava in contratti di appalto. Lo stop è stato poi prorogato in diversi decreti emergenziali, fino a che non è stato limitato alle aziende in cui venivano utilizzati gli ammortizzatori sociali straordinari, previsti per l’emergenza Covid, con il Decreto Sostegni (Decreto Legge 22 marzo 2021, n.41).



Mentre la situazione in alcuni casi diventa tesa e richiama l’attenzione dell’opinione pubblica con le proteste di piazza, abbiamo ascoltato il Segretario Generale FIM CISL Roberto Benaglia. La sua esperienza sindacale inizia da giovanissimo con diversi incarichi territoriali e nazionali a partire dai primi anni ’80. Eletto Segretario Generale dal 13 luglio 2020, Benaglia si occupa da sempre di contrattazione, innovazione nel campo del mercato del lavoro, della formazione continua, delle politiche attive, del welfare contrattuale.

Mentre l’Italia, emergenza sanitaria permettendo, si concede delle vacanze, alcuni lavoratori dell’industria manifatturiera hanno avuto l’amara sorpresa del licenziamento. Lei cosa ne pensa?
Purtroppo siamo costretti ad affrontare una nuova emergenza occupazionale, che aggrava il fronte delle aziende in crisi. Nel nostro settore metalmeccanico abbiamo oltre 80 tavoli di crisi storiche aperti al MiSE: Whirlpool, ex-Embraco, Piombino, Jabil, ecc.. Questa è la cartina di tornasole che il MiSE sta fallendo la sua missione sulle rendustrializzazioni, che si somma ad uno sterile sistema di politiche occupazionale, visto che siamo forse l’unico paese in Europa che ha contemporaneamente una disoccupazione giovanile a due cifre e aziende che hanno difficoltà a trovare professionalità. In questi giorni, come se non bastasse, si sono aggiunti nuovi casi: la Giannetti Ruote, la Gkn Driveline e ultima in ordine di tempo la fabbrica di cuscinetti Timken di Brescia. Qui lo sblocco dei licenziamenti c’entra fino ad un certo punto. Sono tutte aziende della componentistica auto, alcune anche di proprietà di fondi finanziari e come sappiamo, il settore dell’automotive è epicentro della transizione ecologica e digitale. Un settore che non ha superato i contraccolpi della pandemia: oggi le immatricolazioni sono ancora al -25% sotto la fase pre-pandemica, gli impatti in termini sociali ed economici su tutto il settore e la filiera della componentistica senza politiche di sostegno rischiano di essere davvero pesanti. Parliamo di un settore che fa oltre 11% del Pil nazionale, non possiamo essere distratti, servono risorse e politiche di settore straordinarie se vogliamo evitare che il pacchetto “Fit for 55” si traduca per l’Italia in uno tsunami economico, industriale e sociale. Detto ciò, la nostra industria manifatturiera sta andando molto bene, i dati ci parlano di una ripresa consistente. Questa ripresa però va sostenuta, le risorse del Recovery Plan sono un’occasione storica per modernizzare il paese e dare una spinta alle nostre imprese, a patto però che si mettano le mani ai tanti lacci e laccioli che per anni hanno frenato il paese: sburocratizzazione, accesso al credito, investimenti in infrastrutture fisiche e digitali, tempi certi della giustizia e un nuovo sistema formativo che veda un diverso rapporto tra impresa e lavoro.

Abbigliamento, pelletteria, calzature e tessile sono, secondo lo Stato, i settori ancora in crisi che stentano nella ripresa. Le pare una fotografia veritiera della situazione del nostro Paese, oppure si potrebbe dare una diversa interpretazione ai dati? Si certo, il sistema moda Italia ha avuto insieme al turismo e alla ristorazione pesanti danni, a questi si sommano anche tutta quella serie di piccoli artigiani e commercianti che nell’anno e mezzo di lock-down hanno visto pesanti perdite. Molti di loro hanno chiuso e probabilmente non riapriranno. Per questi servono misura straordinarie. L’industria metalmeccanica, devo essere sincero, ha tenuto bene alla pandemia, anche grazie ai protocolli per la sicurezza messi in piedi grazie al sindacato aziende hanno continuato a lavorare. Il problema semmai è di prospettiva, come dicevo, se settori importanti per l’occupazione e l’economia come quello dell’automotive sono al centro della grande transizione ecologica e digitale, non da meno sono altri settori metalmeccanici che con la trasformazione digitale avranno importanti impatti. Sul piano contrattuale abbiamo introdotto col rinnovo del CCNL dei metalmeccanici a febbraio di quest’anno importanti novità: dal sistema dell’inquadramento, alla formazione, al welfare…ma non basta, perché siamo davanti a trasformazioni epocali: clima, digitale, demografia e il lavoro è l’epicentro di queste grandi trasformazioni. Per non lasciare dietro nessuno per ogni euro investito in transizione ecologica o digitale, almeno un altro deve essere investito in piani sociali che rendano sostenibile la transizione.

Secondo il Ministro del Lavoro Orlando, bisogna utilizzare l’ondata di finanziamenti del Recovery Plan per responsabilizzare le imprese e legarle con forza al Paese dove operano e dal quale ricevono sovvenzioni. Lei è d’accordo? Pensa che sarà difficile da mettere in pratica questo proposito?
Siamo in un economia di mercato, non possiamo obbligare le aziende a restare se vogliono delocalizzare, ma possiamo fare altro. Io userei i fondi del Recovery Plan per creare un “ecosistema” favorevole alle imprese, a partire dalle infrastutture e dallo snellimento della nostra burocrazia elefantiaca. Abbiamo i migliori metalmeccanici al mondo, se creiamo anche le condizioni perché le imprese possano lavorare meglio non credo che ci sia tutta questa voglia di delocalizzare. Possiamo poi fare come fanno nel resto d’Europa, rendere cioè i licenziamenti costosi e onerosi per le imprese e fondi che intendono dismettere attività in Italia. Ogni procedura di esubero deve prevedere, come avviene nel resto dell’UE, piani sociali e procedure per cui le aziende non liquidino decine di lavoratori con una e-mail in barba a sindacato, territorio e politica, ma si siedano ad un tavolo per trovare insieme una soluzione lavorativa.

Alta tensione dopo i casi GKN in Toscana e Whirpool in Campania: si ipotizzano sanzioni alle multinazionali che delocalizzano. Cosa ne pensa Fim Cisl?
Solo le sanzioni, senza piani industriali e procedure che prevedono un iter certo in cui vengono coinvolti sindacati, governo e impresa per la ricerca di una soluzione servono a poco. Eventuali sanzioni rischiano solo di allontanare eventuali investitori. Già qualche altro ministro pochi anni fa aveva messo in campo una legge anti-delocalizzazioni, risultato? Provvedimenti di questo tipo servono a poco serve piuttosto come dicevo sopra politiche che rendano costosi i licenziamenti da una parte e dall’altra creare le condizioni perché aziende e multinazionali investano sempre più nel nostro Paese. GKN e Whirlpool non sono paragonabili in questo senso. La prima, di proprietà di un fondo finanziario, è dentro l’indotto di un settore in forte trasformazione e la proprietà non è un soggetto industriale, il che rende tutto molto più complicato. In questo senso dovremmo ragionare quando si affrontano processi di reindustrializzazione fino a che punto valga la pena affidarsi a fondi finanziari che hanno nel loro obiettivo il trimestrale e non lo sviluppo industriale. Su Whirlpool la situazione è un po’ diversa, siamo davanti ad un soggetto industriale che non ha mandato un avvocato a trattare dopo aver inviato le lettere di licenziamento. Questo non significa che sia meno grave, perdere 350 posti di lavoro nel Mezzogiorno del Paese non è la stessa cosa che nel nord del Paese. E’ una vertenza che si trascina da tre anni e che ha visto tre differenti governi tante promesse ma zero soluzioni. Oggi il tempo è scaduto ma non possiamo permetterci di perdere quei posti di lavoro, chiediamo a Whirlpool ulteriore tempo, 13 settimane per trovare una soluzione dentro le pieghe del recovery plan.

Il Decreto Lavoro ha anche istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali il “Fondo per il potenziamento delle competenze e la riqualificazione professionale” (FPCRP), con una dotazione iniziale di 50 milioni di euro per l’anno 2021. Queste risorse finanzieranno i progetti formativi rivolti ai lavoratori beneficiari di trattamenti di integrazione salariale per i quali è programmata una riduzione dell’orario di lavoro superiore al 30%, calcolata in un periodo di 12 mesi, nonché ai percettori della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI). Come giudica l’istituzione di questo fondo?
E’ finalmente una buona misura. Non possiamo più aspettare quando parliamo di politiche attive che sono indispensabili per tutelare i lavoratori. La formazione è l’assets immateriale strategico su cui investire maggiormente se vogliamo mantenere la nostra economia ai primi posti dei paesi industrializzati al mondo. Le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, richiedono e richiederanno nuove competenze e un continuo aggiornamento. In questi anni lo abbiamo visto in tante imprese metalmeccaniche, il digitale insieme alla robotica ha trasformato le nostre fabbriche e le competenze necessarie. Bene, quindi, potenziare il fondo per le competenze. E’ una cosa che la Fim e la Cisl chiedevano da anni, in tutto il periodo di lock-down nelle aziende in crisi i lavoratori in cassa integrazione non hanno potuto fare neanche un ora di formazione, è assurdo. Ma servirebbe uno sforzo in più, inserire dentro la riforma degli ammortizzatori causali legate ai cambiamenti legati alle transizioni digitali ed energetica, aiuterebbe a mettere in campo ulteriori risorse per piani sociali di ricollocamento. La formazione ha senso se riusciamo a far incrociare la domanda e l’offerta di lavoro, uscire dalla regionalizzazione delle politiche sociali per il lavoro semplificando e rendendo facile il dialogo tra domanda e offerta di lavoro sarebbe un grande passo avanti delle politiche attive del nostro Paese che oggi scontano tassi di collocamento da zero virgola.

A cura di Maria Pia Romano



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