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Che cos’è la variante Epsilon? No, non è un’ennesima inquietante mutazione del Covid: la “e” sta infatti per Economia, che sta boccheggiando vessata da un debito di ossigeno sempre più preoccupante, date le conseguenze nel breve e nel lungo periodo. Questo perché l’impatto della pandemia non si avverte solo in àmbito clinico e sanitario com’è ovvio, bensì investe anche altri settori con implicazioni difficili da prevedere. All’inizio dell’impennata dei contagi nei primi mesi del 2020, fenomeno che ha travolto di fatto e contemporaneamente tutto il mondo industrializzato, e complici i provvedimenti di chiusura delle attività lavorative messi in atto a livello globale, il meccanismo del mercato internazionale si è fermato più o meno per tutti.



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Il confinamento, lo stop alla produzione e il crollo generale della domanda di beni – da principio – sono passati in secondo piano rispetto al dramma degli ospedali saturi, delle terapie intensive al collasso e del rischio di mandare in frantumi il sistema sanitario. Ma oggi che, con l’incedere della campagna vaccinale, è imperativo recuperare la produttività perduta nell’ultimo anno, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede il passaggio da una navigazione a vista a una strategia definita nei modi e nei tempi. Un passaggio che però si sta rivelando più difficoltoso del previsto, e con una variabile che fa dormire sonni poco tranquilli: la carenza delle materie prime.

Materie prime indispensabili per i Paesi cosiddetti trasformatori come l’Italia, e fondamentali per la ripartenza del consumo, della produzione, dell’export, in una parola dell’economia. Di fatto, ci si è accorti con sgomento che manca di tutto e di più: dal legname alla plastica, elementi essenziali per mantenere in vita il settore elettronico, delle comunicazioni, degli elettrodomestici, della componentistica e dell’automotive. Per non parlare del settore edile, che vede – secondo le stime dell’Ance, l’Associazione Nazionale dei costruttori – aumenti del 150% per quanto concerne i preventivi. Il motivo è semplice: il rincaro dei prezzi del calcestruzzo, dei tondini di cemento, dei derivati del bitume e del petrolio, cui si aggiungono i gravi ritardi nelle consegne. L’Ance segnala anche la necessità di ridiscutere – seduti a un tavolo con il Ministero dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture – i contratti già in essere, così come gli appalti e le concessioni. Senza tralasciare i ristori, con verifiche effettuate ogni tre mesi relativamente ai costi di produzione e alle compensazioni delle differenze per gli aumenti superiori all’8% a carico del committente, sia esso pubblico o privato. Compensazioni che, qualora vi fossero successivi cali di prezzi, sarebbero restituite.

Ma a cosa si deve la mancanza di materie prime? A dar retta a un report per Bloomberg a cura di Kim Chipman, Enda Curran e Brendan Murray, il fattore scatenante è la “smania da rifornimento” del settore produttivo innescata dal tentativo di affrontare la crescita vertiginosa della domanda di beni. Fra le cause, oltre ovviamente al Covid che ha reso arduo raggiungere i porti asiatici, il report tira anche in ballo i vari blackout occorsi negli USA, per non parlare dell’assurdo incidente avvenuto nel Canale di Suez a marzo 2021, quando l’Ever Given si è incagliato provocando lo sconvolgente stallo di duecento navi, per giunta protrattosi tragicamente per settimane. Restando in tema, non possiamo non considerare la vexata quaestio delle prescrizioni sulle emissioni delle navi da carico, che dal 2020 – complice il nuovo regolamento dell’Organizzazione marittima internazionale – impongono la riduzione della percentuale di zolfo del carburante, costringendo così gli armatori a rottamare le navi più obsolete e a migliorare i sistemi di quelle aggiornabili.



La conseguenza? L’aumento dei costi di gestione scaricati sul nolo. Secondo un altro report, poi, quello del Logistic Managers’ Index che negli Stati Uniti analizza le tendenze nel settore logistico, si è assistito nell’ultimo anno a un aumento delle spese per trasporto, stoccaggio e assortimento tale da raggiungere il secondo livello più alto dal 2016. Parallelamente l’impennata esponenziale del commercio online durante il confinamento in casa ha evidenziato la rilevanza delle scorte di magazzino, poiché l’immediata disponibilità di beni garantisce al tempo stesso l’immediata evasione degli ordini, e in ultima analisi la competitività. Con la crescita vertiginosa dell’e-commerce, insomma, si è palesata la necessità di una strategia di efficienza che interessi l’intera filiera, e che preveda la disponibilità di magazzini di dimensioni maggiori per ospitare un quantitativo di merci superiore; magazzini siti in luoghi facilmente accessibili ma di conseguenza più costosi.

E c’è un’altra questione di cui tener conto: fintantoché la domanda permarrà ai livelli odierni la contrazione della domanda ha determinato anche una riduzione dei prezzi delle materie prime, dinamica di cui ha profittato in particolar modo la Cina per accumulare scorte. La Cina è anche il Paese che ha visto la propria domanda ripartire con diversi mesi di anticipo rispetto al resto del mondo, collocandosi quindi in una posizione di vantaggio inconfutabile. Se poi pensiamo che i cinesi sono estrattori di litio, rame e terre rare, e posseggono le principali miniere di cobalto in Congo, ci rendiamo conto che l’80% delle materie grezze utilizzate per realizzare le batterie al litio provengono dalla Cina, causandone un aumento vertiginoso del prezzo. Per arginare la crescita anomala dei costi di produzione industriale, il regime di Pechino ha annunciato di riversare sul mercato gran parte delle scorte strategiche nazionali di zinco, rame, alluminio e metalli non ferrosi, con il vincolo che i lotti acquistati non siano rivenduti ma trasformati, scongiurando così il rischio di azioni speculative. Ma il Covid ha mutato il mondo creando scompensi di sistema nella cosiddetta catena di produzione del valore, talché si assiste di continuo a strategie industriali poco lungimiranti, complici le quali alcuni Paesi si sono ritrovati a dipendere da altri.

Quanto alle materie prime, il loro fabbisogno potrà solo aumentare soprattutto nelle economie occidentali intente a mettere in atto la riconversione industriale per ridurre le emissioni inquinanti. D’altro canto, se nell’ambito di certi settori – come per esempio quello del legname – compensare la suddetta dipendenza dall’estero potrebbe essere un processo più rapido, in altri come quello dei componenti elettronici si dovrebbero allestire stabilimenti produttivi la cui costruzione e messa in opera richiedono diversi anni. Se la situazione non dovesse normalizzarsi in tempi relativamente rapidi, il tutto andrebbe peraltro a incidere negativamente sulla transizione energetica, uno dei punti cardine del Piano Nazionale per la Ripresa e Resilienza. Stando infatti ai resoconti dell’economista Mario Deaglio, professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, pubblicati sulla rivista online Il Sussidiario.net, la transizione energetica per l’appunto potrebbe subire ritardi considerevoli. I volumi di produzione non sono affatto tornati ai livelli pre-Covid, e la smania di approvvigionamento sopra descritta potrebbe ritrovare un barlume di normalità con l’assestarsi della domanda. I dati di Siderweb smentiscono poi l’assunto che la crisi delle materie prime sia dovuta al Covid: nel 2019 infatti, la produzione di acciaio Inox era già diminuita di un milione di tonnellate rispetto al 2018 (su un totale di 52 milioni), cifra rilevante dal momento che parliamo di una delle materie prime più richieste. E se nel 2005 l’Europa con il suo 35% era il principale produttore di acciaio Inox mentre la Cina navigava sul 13%, oggi la prima si assesta a un magro 12% e la seconda veleggia invece sulla percentuale monstre del 60%. La stessa Indonesia, poi, in soli tre anni è arrivata al quinto posto della produzione mondiale.

E chi ci rimette in tutto questo? Ovviamente l’Europa che si vede ritagliare un ruolo marginale nelle esportazioni di acciaio Inox rispetto a quello dei Paesi asiatici. Il tutto con conseguenze preoccupanti sulla crescita del Vecchio Continente, come ha messo in risalto la crisi dovuta al Covid. Che fare allora? Per affrontare la non facile questione di cui sopra, nell’ottobre 2020 è stata siglata l’Alleanza Europea per le Materie Prime, che prevede un pacchetto di misure volte a ridurre – se non a eliminare tout court – la succitata dipendenza dai mercati extraeuropei per quei materiali ormai divenuti indispensabili per la ripresa economica. L’Alleanza si muove su tre direttrici principali a partire dall’estrazione dei metalli presenti in territorio europeo. In sei città, fra le quali Roma, sono stati dunque attivati dei centri di ricerca per individuare le tecnologie caratterizzate dalla minore invasività e dal massimo rendimento. Non solo: si parla anche di potenziamento di tutto il comparto del riciclo delle batterie, nell’ambito del quale l’Europa zoppica rispetto invece a quello dell’alluminio e delle materie plastiche. Tale potenziamento permetterebbe di recuperare una parte delle batterie dismesse con benefici evidenti. In tutto questo, si rivela anche quanto mai necessario e cruciale donare abbrivio a una politica comune europea al fine di siglare accordi industriali e strategici per estrarre e lavorare le materie prime all’estero, garantendo così – seppur nell’ambito di un mercato d’interazioni a livello globale – un minimo di agognata solidità.

A cura di Marco Zonetti



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