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L’esatta conoscenza del significato di “Disoccupato – Inoccupato – Inattivo” è indispensabile per affrontare, con consapevolezza, questo argomento così importante. Disoccupato: è colui che ha svolto un lavoro, regolato da un contratto, e, al momento, non ha un lavoro retribuito. In questa definizione non si tiene conto, in alcun modo di lavoro in nero, tirocinio, periodo di pratica. La disoccupazione può essere volontaria, se dovuta a dimissioni, o involontaria, se dipesa da licenziamento per dinamiche aziendali o giustificato motivo.

La definizione di “Inoccupato” e “Inattivo”

Inoccupato: è colui che non ha mai lavorato ed è alla ricerca della prima occupazione. Inattivo: è colui che non cerca lavoro pur non avendo alcun impedimento ed essendo “lavorativamente attivo”. Per maggiore chiarezza e per fornire ulteriori elementi necessari ad inquadrare il fenomeno, è necessario dire che ai fini statistici si considerano le persone che non hanno cercato lavoro nelle quattro settimane precedenti la ricerca presa in riferimento e non intendono cercare lavoro nelle due successive. Secondo queste indicazioni è facile intuire che i numeri relativi al lavoro, in qualsiasi Paese, risentono di fattori non assoggettabili a statistiche. Talvolta si ha l’impressione che siano diminuiti i disoccupati ed invece è semplicemente aumentato il numero degli inattivi o questi ultimi decidono di mettersi a cercare un lavoro aumentando il numero dei disoccupati.

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In calo il numero dei disoccupati

Teniamo buone le indicazioni INPS e rileviamo che il numero dei disoccupati, allargatosi nel periodo delle chiusure e delle restrizioni a causa della pandemia, è rientrato nelle percentuali conosciute, anzi è calato. Sono tanti quelli che ritengono che la distanza tra domanda e offerta di lavoro, che crea, in Italia, migliaia di posti di lavoro vacanti, non dipende da una cattiva informazione ma, piuttosto, dalla mancanza di competenze necessarie.

Formazione, formazione, formazione…In un mondo del lavoro in continuo mutamento, l’occupabilità necessita, soprattutto, di competenze, per cui la qualità dei percorsi formativi è essenziale. In Italia i disoccupati sono il 9,5% della popolazione, a partire dai 15 anni, occupabile. La media nella Ue è del 6% (fonte Eurostat, agosto 2022). La regione con il maggior numero di disoccupati è la Campania (19,3%) seguita dalla Sicilia (18,7%) e la Calabria (18%). Al contrario la percentuale più bassa si registra nel Trentino Alto Adige (4,8%).

La composizione dell’occupazione

Se analizziamo la composizione dell’occupazione, divisa tra uomini e donne, vediamo che in Italia, in maniera praticamente invariata da sempre, la sottoccupazione è marcatamente un fenomeno femminile. Pregiudizi culturali e sociali sui ruoli familiari, ancora oggi, fanno si che le donne lavorino meno degli uomini e laddove i numeri dicono il contrario, hanno contratti part-time. A questo riguardo, nel Trentino Alto Adige e Veneto l’80% dei lavoratori part-time sono donne, nella provincia di Bolzano raggiungono l’81,5%, seguono Valle d’Aosta e Lombardia.

Le percentuali più basse si riscontrano in Calabria 55,4%, in Sicilia e Campania circa il 60%. Questi numeri non tengono conto, però, del fatto che l’occupazione è diversa nelle varie regioni d’Italia e che, nel meridione è molto più alto il tasso di inattività e molto più basso quello di occupazione, soprattutto tra le donne, e il lavoro part-time è 3 volte maggiore tra le donne (Istat giugno 2022). Per cercare di venire incontro alle tante persone in difficoltà, il Governo è intervenuto con forme di aiuto economico pur non perdendo di vista il dovere di ognuno di cercare un posto di lavoro. Per questo sono state coinvolte figure professionali per aiutare nella ricerca di un lavoro.

La questione dell’orientamento

A tanti queste azioni sono sembrate un tentativo “tipicamente politico”, inefficace e costoso, con il quale si sia voluto calare dall’alto una, presunta, soluzione alla questione dell’orientamento al lavoro. Se da una parte Qualcuna di queste forme di aiuto si è dimostrata un manifesto di civiltà con cui l’Italia si è messa alla pari di altri Paesi che queste forme di “aiuto” le adoperavano già da tempo, dall’altra ha rappresentato un problema, alzando le aspettative retributive da parte di chi cerca un lavoro.

Le persone intervistate hanno attribuito a questo aspetto la mancanza di “mano d’opera” registrata nelle attività legate al turismo o alla raccolta agricola. Così si è spostata l’attenzione dalla disponibilità o indisponibilità di lavoro all’adeguatezza dei salari e condizioni di lavoro per questi mestieri. Come si sono manifestate fino ad ora queste forme di aiuto, si confondono facilmente con l’assistenzialismo che tiene viva la dipendenza di chi le riceve da chi le eroga.

La “trappola della povertà”

Chi ha studiato il “welfare state” di alcuni Paesi ha definito questi aiuti “la trappola della povertà”, poiché la spinta, lo stimolo, l’incoraggiamento, l’incentivo a vivere di queste forme di aiuti sono maggiori di quelle per la ricerca di lavoro. Tanti giovani si accontentano di queste forme di aiuti che, se non sufficienti, incrementano con forme di lavoro in nero.

In questo modo non si risolve alcun problema e ad impoverirsi è solo la società che perde l’aiuto di giovani, e meno giovani, capaci di contribuire, attraverso il lavoro, al benessere collettivo; si produce meno ricchezza da destinare a chi, veramente, ne ha bisogno. Sussidio, bonus, ristoro eccetera eccetera eccetera, tutte misure giuste e necessarie in tempi di crisi, non possono sostituire una seria, concreta politica di sviluppo del lavoro. C’è da augurarsi che con l’aiuto significativo del Pnrr si riesca a cambiare strada ai vari tentativi, fallimentari, fatti fino ad ora e che non sia più necessario continuare a distribuire “aiuti”.

A cura di Antonio Caivano

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